Soundwall says: Clubbing e discoteche, si fa presto a dire cultura.

Source: https://www.soundwall.it/clubbing-e-discoteche-si-fa-presto-a-dire-cultura/

E’ stata salutata con grande entusiasmo – giustamente! – la notizia riportata in Italia in primis da Club Futuro riguardo a un passaggio cruciale per la scena dei club e delle live venue in Germania: il riconoscimento del “valore culturale” anche nei meccanismi delle istituzioni edilizie, leggi piani regolatori. Il valore simbolico è altissimo, quello pratico altrettanto: affitti calmierati, meno attaccabilità da parte di vicini che protestano e benpensanti vari, più certezze nel poter operare in santa pace (naturalmente, rispettando tutte le regole minime di impatto ambientale e legalità), agevolazioni fiscali. Tutto questo è stato presentato in Parlamento da un vasto arco costituzionale: esponenti di partiti da destra a sinistra si sono uniti in uno specifico gruppo di pressione e hanno elaborato una proposta che dovrebbe essere confermata oggi ufficialmente. Tutto bello, tutto fantastico, tutto “Ecco, visto, e noi in Italia invece…”. Ora: la prima che consiglieremmo – scusate l’autoreferenzialità – è di tornare su quanto scrivevamo meno di un anno fa, riguardo agli aiuti destinati dalle istituzioni tedesche ai club e quanto questo (non) sarebbe possibile al momento in Italia. I problemi sul piatto, col “riconoscimento culturale”, sono più o meno gli stessi. E’ facile e, lo ripetiamo, giusto entusiasmarsi. Ma passata la prima ventata di gioia ed ammirazione, bisogna iniziare a considerare una serie di problemi. Tutto nasce dalla questione fondamentale: cosa è cultura, cosa non lo è. Ci fa molto piacere che i “club siano cultura”; ma, stando al nostro panorama, un club che fa Black Coffee vendendo i tavoli a 10.000 euro fa cultura o non fa cultura? Un club che fa Motor City Drum Ensemble mettendo il biglietto a 30 euro fa cultura o non fa cultura? E Hunee pagato 5/6000 euro è cultura o non è cultura? E’ più cultura Daniel Wang, ma solo perché lo paghi 1500 e piscia sui pacchettini Vuitton della Gou in portineria? Nella proposta tedesca, si fa esplicitamente riferimento al fatto che non tutti i club possono ambire al riconoscimento-cultura, ma solo quelli che dimostrano di operare tenendo un focus preciso al discorso di qualità, all’attenzione verso i talenti emergenti, a una programmazione curata. Il principio è sacrosanto, ma come ogni principio sacrosanto c’è lo scoglio dell’applicazione concreta, tramite parametri misurabili, e farlo quando c’è di mezzo l’arte e il divertimento non è per nulla semplice. E può far nascere diverbi, trucchetti, paraculete, invidie ed odi incendiari, in un paese patologicamente guelfoghibellino e “furbo” come l’Italia. Senza girarci attorno: ad un certo punto c’è bisogno di qualcuno o qualcosa che dica cosa è cultura e cosa no. Ma chiunque esso sia, o qualsiasi cosa esso sia, dovrà comunque passare attraverso parametri non assoluti, ma discrezionali. Con tutte le difficoltà e le contestazioni che ne conseguono. Mettiamo le cose “a terra”. Chi vi scrive, che è favorevolissimo ad una lotta per il riconoscimento di club e sale concerti come “edifici di valore culturale”, avrebbe in mente questo tipo di criteri: Destinare una robusta percentuale specifica e ben specificata del fatturato mensile ai compensi artistici (la famosa “spesa per l’artistico”), si tratti di dj, musicisti, band, scenografi, visual artist, eccetera Imporre un regime draconiano sull’abbattimento del “nero”: io ti do uno status privilegiato, ma a maggiori onori corrispondono maggiori oneri (e maggiori controlli) Chiedere una presenza fissa e sistematica nella proposta della programmazione per i talenti emergenti e/o gli artisti rilevanti per la scena locale Dimostrare di aver operato negli anni con criteri di qualità ed eccellenza, diventando rilevanti nel proprio settore di appartenenza …tutto bene, no? Tutto bello e condivisibile, giusto? Perfetto. Ora analizziamo queste voci una per una sottoponendole al “worst case scenario” che, ricordiamolo, in Italia è spesso e volentieri il “most suitable scenario”, almeno finché non ci si trova davvero con le spalle al muro: Percentuale del fatturato destinata all’artistico. Se uno quindi strapaga un dj o una crew, è a posto? Se strapaga Mamacita (peraltro tutti ottimi professionisti, c’è poco da fare gli snob) è a posto col “valore culturale”? E se invece non è a posto, perché Peggy Gou a 25.000 euro è valore culturale e Mamacita a metà della cifra no? Certo, è ottima la cosa di considerare anche le altre figure creative (scenografi, visual artist…), questo ci consentirebbe di avere finalmente dei club “creativi” e suggestivi, dove le idee sono tante ed arrivano da tutte le parti, ma come farebbero i piccoli club? Dovrebbero pagare gli elementi “accessori” esattamente quanto i dj? E’ realistico? E poi, altra domanda: vogliamo comunque mettere un “revenue cap” simile al salary cap, tagliando fuori i club troppo grossi? O, inevitabilmente, più un club e grosso e con una storia più è giusto si veda riconosciuto un “valore culturale”? Abbattimento del nero. Questo è un punto fondamentale. A parole tutti d’accordo, nei fatti chiunque lavori dentro un locale, anche per spostare una penna, deve essere messo in regola. Basta allungare i 50/100 euro all’amico che ti va prendere il dj in aeroporto, all’amica che fa la sostituzione last minute al bar, eccetera eccetera eccetera. Per i dj, basta pagamenti in nero: denuncia tutto al fisco il locale, ma denuncia poi tutto al fisco anche il dj. In realtà tutto questo è desiderabile, e molto, in astratto: fa paura però lo scontrarsi concretamente col muro della burocrazia italiana. E non vogliamo nemmeno nominare, ma dovremmo, la questione del “Chi controlla i controllori”: in vent’anni abbiamo visto di tutto, tra emissari Siae accomodanti, annonaria che chiude un occhio e mezzo, amministrazioni locali che fanno figli e figliocci. Stringere pesantemente le maglie della legalità in Italia rischia sempre di trasformarsi in un modo non per ottenere più pulizia, ma per mettere fuori mercato chi non ha i ganci giusti spianando invece la strada a chi li ha. Talenti emergenti ed artisti locali rilevanti. Chi stabilisce chi è un “talento emergente” e chi no? Lo è chi ha avuto la fortuna di finire su Giant Steps su Soundwall (o con un’intervista su Dj Mag, o su Parkett Channel)? Chi ha inciso per un’etichetta, in anni in cui chiunque può farsi un’etichetta in cinque minuti? E se viene richiesto di aver inciso su un’etichetta un minimo di pregio, in quanti minuti secondi nasce il fenomeno de “Io ti pago, tu mi fai uscire sul tuo roster”? Creiamo un registro al Ministero, o un registro fatto intanto da enti privati di settore (come per fortuna si sta iniziando a provare a fare, ma già lì con le prime polemiche di chi cerca sempre il pelo nell’uovo e/o si crede più bravo o più intelligente)? Infine, criteri di qualità ed eccellenza. Perfetto: chi li decide? Chi giudica? Creiamo una commissione di saggi? E nel momento in cui viene creata, in quanti millesimi di secondo nasce dalla base il mormorio “Hanno messo lui in commissione, ma che cazzo ne capisce quel trombone”, oppure “Hanno messo lui in commissione, e lui favorisce solo gli amichetti suoi, si sa”? Oppure tagliamo la testa al toro e facciamo che in commissione entrino persone estranee alla scena, cadendo dalla padella alla brace? Sarà il portaborse di Franceschini a decidere se Geo From Hell è “qualità” o il suo contrario? *** Non stiamo dicendo che non bisogna fare nulla, che non bisogna nemmeno provare ad auspicare per l’Italia quello che sta succedendo in Germania. Vogliamo solo mettervi in guardia: non è facile, non è per un cazzo facile ed immediato. E soprattutto: per arrivarci, ciascuno deve rinunciare a un pizzico della propria vanità, accettare che non tutti i criteri lo trovino d’accordo, non tutti i “club meritevoli” siano per lui o lei meritevoli davvero, non tutto il meccanismo sia perfetto ed al riparo da critiche e possibili storture. Abbiamo la maturità per farlo? La scena ha la maturità per farlo? Gli imprenditori della notte, grandi e piccoli, hanno la maturità per rinunciare completamente all’economia in nero? Abbiamo il buon senso di non scannarci nel discutere fra noi se Loco Dice è più cultura di Random – Una festa a caso, e se Caterina Barbieri è più cultura di un ventenne pazzo che fa industrial inascoltabile? L’impressione è che nella scena dei live club per quanto riguarda la musica non-da-dancefloor sia un po’ più facile mettere dei paletti, visto che corre la grande distinzione fra chi fa musica originale e chi invece suona cover. Da noi, nel clubbing, per il suo DNA insito nel deejaying, questa distinzione è semplicemente impossibile, impraticabile. Chiaro: esiste una differenza tra chi booka solo grandi nomi “sicuri” e piazza tavoli e biglietti costosi e chi invece fa vera indagine artistica accettando di guadagnare sempre poco (o addirittura perderci), ma c’è tutta una “terra di mezzo” in cui questi due campi si incontrano, si incrociano. Pensiamo ad esempio ai festival più di qualità in Italia nel mondo “nostro”: Dancity e Jazz:Re:Found e FAT FAT FAT sono qualità indiscussa, ma i Dixon, le Peggy Gou, i Theo Parrish non a cachet umani ma strapagato (su sua tassativa richiesta, eh) li hanno presi anche loro, ed anche loro operano in un regime di mercato. La questione insomma è molto complessa, e richiede tempo. La matassa è per stomaci forti e gente paziente. Sì, perché per essere dipanata avrebbe bisogno di molta calma, molta maturità, molta disponibilità, zero massimalismo. E francamente, certe esultanze troppo facili sui “Ecco, lì sì che i club sono cultura” ci fanno sospettare che invece il massimalismo stia prima di tutto in chi vorrebbe anche per l’Italia una situazione “tedesca”, quando poi alla prova dei fatti ed alla costruzione dei criteri sarebbe il primo a lamentarsi ed a battere i piedi.

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